La sentenza di assoluzione dei manager di Google, rei di non aver vigilato sull’inserimento di un video di sevizie su un bambino sulla propria piattaforma, afferma anche l’impossibilità dei provider a inserire filtri preventivi
La sentenza del caso Vivi Down è stata resa pubblica ieri. Oltre all’assoluzione dei tre manager di Google perché “il fatto non sussiste” è stato anche sancito che non spetta ai provider controllare in modo preventivo tutti i contenuti che vengono inseriti dagli utenti sulle loro piattaforme.
La vicenda
Nel 2010 tre manager di Google, che attualmente ha problemi di privacy con Google Wallet, erano stati condannati a 6 mesi di reclusione per non aver rimosso preventivamente un video in cui erano mostrate le sevizie subite da un bambino handicappato da parte dei compagni di scuola. Al processo d’appello avvenuto nel 2012 la sentenza di primo grado viene annullata e i dirigenti vengono assolti perché “il fatto non sussiste”.
Una svolta epocale
La sentenza ha però una valenza molto importante per tutto il mondo del web. La Corte di Milano ha infatti affermato che i service provider non sono tenuti a dover installare filtri preventivi sulle loro piattaforme anche perché il servizio stesso ne sarebbe rallentato, oltre a limitare la libertà di espressione in Rete. “Demandare a un Internet provider un dovere-potere di verifica preventiva appare una scelta da valutare con particolare attenzione in quanto non scevra da rischi poiché potrebbe finire per collidere contro forme di libera manifestazione del pensiero.” – si legge nel documento ufficiale – “Va esclusa per il prestatore di servizi che fornisca hosting attivo la possibilità ipso facto di procedere a una efficace verifica preventiva di tutto il materiale immesso dagli utenti […] tale comportamento non può essere ritenuto doveroso in quanto non esigibile per la complessità tecnica di un controllo automatico”.