#Glancee e la retorica della start up italiana

Illustri Manager Digitali, questo fine settimana il tema di tendenza più interessante che è emerso è stato il dibattito generato dall’acquisizione da parte di Facebook di Glancee.

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Glancee è un’applicazione per smartphone, ideata da tale Andrea Vaccari, che, incrociando informazioni provenienti da svariati social network, consente di scoprire se nelle nostre vicinanze è presente qualche nostra conoscenza, rendendoci edotti anche di cosa sta facendo.

Insomma una sorta di evoluto aggregatore delle varie funzionalità da braccialetto elettronico autoimposto, che caratterizzano le funzionalità dei social network più orientate al Panopticon.

Non bisogna essere analisti finanziari per comprendere che Facebook alle soglie della propria quotazione in borsa, sta cercando di rinforzare il proprio settore meno presidiato: quello delle applicazioni mobili. Gli utenti accedono a Facebook parecchio da desktop, ma l’evoluzione verso il mobile è praticamente obbligata. Pertanto Glancee, nel suo piccolo, rientra nella medesima strategia di acquisizioni di Instagram.

Cosa rende tanto speciale quindi l’acquisizione di Glancee?

Il fatto che è “una start up italiana di cervelli in fuga”.

Orbene, miei esimi Manager, su queste qualifiche ci si è avvitati per giorni. Il dibattito, condotto a botte di link a blog e siti più o meno autorevoli, è stato abbastanza acceso, segno che si è toccato un nervo scoperto della comunità online degli informatici.

Buona parte della discussione si è polarizzata attorno a due blog, che hanno prodotto anche una sorta di punto e contrappunto tra loro: SiliconValley di Marco Marinucci per i tipi del Corriere della Sera da un lato e  Mad Web di Daniele Buzzurro per i tipi de Linkiesta dall’altro:

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Attorno a queste due posizioni dominanti (a ben vedere neppure troppo in antitesi tra di loro) ne è nato una sorta di simpatico parapiglia digitale.

In primis si è diffusamente discusso sul fatto se Glancee sia una “start up”, o una “exit”, in parole povere se sia un fenomeno ascrivibile a un colpo di genio creativo, o una furba operazione finanziaria.

Al riguardo mi sorprende quanto da noi il termine start up sia utilizzato a totale sproposito: da un lato amplificandone il significato fino a renderlo contraddittorio, dall’altro relegandolo come ambito al solo mondo digitale. Start up indica di volta in volta l’impresa digitale non strutturata, indica un nuovo prodotto digitale emerso fuori dall’ambito della Gang of Four (Amazon, Apple, Facebook, Google), indica l’operato di terzisti in regime di subappalto, indica qualunque cosa più piccolo di Facebook che si affacci nella scena digitale, indica indifferentemente l’azienda, il prodotto, il produttore (lo startupparo), indica un progetto in via di affinamento, indica un prodotto collaudato, indica il sinonimo di beta testing, … Start up sembra un termine da neolingua orwelliana dal significato talmente ristretto che paradossalmente sembra contenere di tutto e il contrario di tutto…

Dopodiché ci si è soffermati sulla retorica dei “cervelli in fuga”… sull’esaltazione dell’italianità del prodotto…

A me questo campanilismo digitale fa sempre un po’ sorridere. Qui siamo di fronte a dei giovani cosmopoliti, che saggiamente si sono spostati lì dove era possibile realizzare al meglio la propria idea imprenditoriale: gli USA. Cosa c’entrano i “cervelli in fuga”? Cosa c’entra la presunta “italianità” del prodotto? Esistono buone applicazioni piccole e grandi fatte da Italiani in Italia (tra i progetti che conosco da vicino mi vengono in mente Followgram e Mangatar), esistono buone applicazioni piccole e grandi fatte da Italiani all’estero. Cosa cambia? La dimensione imprenditoriale in cui uno inserisce il proprio progetto.

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Parliamoci chiaro fare innovazione in Italia è un’impresa titanica, ma non è che negli USA ti si spalancano tutte le porte non appena hai una bella idea per la testa.

Una cosa sembra sempre sfuggire in questi dibattiti: si sta parlando di imprenditoria. Magari giovane, magari digitale, magari trapiantata all’estero, magari di origini italiche… ma si parla di imprenditoria. Andrea Vaccari e soci hanno lottato per un loro progetto imprenditoriale, sono riusciti a realizzarlo, sono riusciti a capitalizzarlo. Tutte scelte imprenditoriali portate avanti, penso, con coraggio e coerenza.

Mi sembra una storia semplice: non ci vedo una favola, non ci vedo uno scandalo, non ci vedo un dramma, non ci vedo furbizia, non ci vedo poesia, non ci vedo sogno, non ci vedo il riscatto di una nazione, non ci vedo cervelli in fuga.

Ci vedo la realizzazione coerente di un progetto imprenditoriale.

Non capirò mai perché in Italia ogni volta che si inizia a parlare di impresa si finisce per fare filosofia… e quando si parla di innovazione si arriva alla metafisica.

>> Vedi tutti gli altri articoli della rubrica “Cinguettii” a cura di Giovanni Scrofani