Più cresce la popolarità più aumentano i dubbi sull’effettivo “costo zero” della produzione della moneta crittografata
Il 2018 sarà l’anno dei Bitcoin. Lo sarà non solo per la conoscenza e uso da parte dei consumatori ma soprattutto per la convinzione di poter davvero sfruttare la moneta del web come mezzo di pagamento per oggetti reali, oltre i contenuti multimediali o di dubbia provenienza. Più aumenta l’interesse intorno alla valuta crittografata, più alcuni studi si concentrano sull’effettivo costo del mining che vi è alla base. Stando a un report di Power Compare, il volume totale dell’elettricità necessaria a minare il soldo presso ogni singolo utente oggi attivo è pari a quello di 159 paesi europei nello stesso periodo preso in considerazione. Tra questi vi sono l’Italia, la Francia, la Germania, l’Inghilterra e la Spagna, insomma in tutto più di 20 nazioni nel nostro continente.
Cosa succede
L’indagine di Power Compare è utile anche per capire quanta differenza ci sia ancora tra Nord e Sud del mondo, tenendo i Bitcoin proprio come metro di riferimento. Solo tre paesi africani attualmente consumano più elettricità del mining: Sud Africa, Egitto e Algeria, mentre tutti gli altri del continente sono al di sotto della soglia richiesta in media dai coin. Una soglia che, a conti fatti, potrebbe essere ben più elevata da quanto considerato da Power Compare, visto che le metriche si riferiscono al processo di ottenimento della moneta in città e fasce orarie con livelli di tariffazione più convenienti. In ogni caso, sempre più persone decidono di tuffarsi nel magico mondo della criptovaluta: negli ultimi 30 giorni, il consumo è cresciuto del 30% a livello globale.