SAS Analytics Experience 2016

Il futuro degli analytics è open, cloud, unified e powerful. Qui trovate una lista di cose che è meglio tenere a mente

Sapere è potere. È il messaggio chiave di SAS Analytics Experience 2016. Sembra essere una frase fatta, usata per decenni in modo vago e indefinito. Oggi, non è più così. La conoscenza è il nuovo luogo della competizione tra imprese, governi e individui. E può essere un campo di battaglia o la nuova frontiera per ripensare regole e modelli di sviluppo. Del resto, anche le rivoluzioni si possono fare in modo diverso. Lasciate i forconi e uscite dalle trincee. Armatevi di immaginazione e andate incontro a ciò che non conoscete. Abbandonate le certezze e abbracciate il nuovo che avanza. La strada più comoda certamente è quella da evitare. Ma attenzione: anche i sogni digitali possono diventare incubi. E chi vince, piglia tutto. Quindi meglio imparare a collaborare.

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SAS Analytics Experience 2016  ha spalancato le porte della digital transformation alla business community internazionale. Un’ occasione di approfondimento e di confronto sul mondo degli analytics e le tendenze più attuali per esperti, professionisti dell’IT, executives e business users. Ecco le cose che ho imparato. Perché come ha detto David Shing, Digital Prophet di AOL, la semplicità (anche quando si racconta una storia) è «the ultimate sofistication».

  1. Roma non fu costruita in un solo giorno

Roma non fu costruita in un solo giorno e così anche la cultura degli analytics ha bisogno di tempo per diventare la nuova normalità che fa funzionare meglio le imprese. Quando cammini per le strade della capitale, capisci che l’Italia è così, spalancata sulla bellezza, ma incapace di reggere il confronto con la grandezza del passato. L’Italia vista da fuori è come lo sguardo che si distende sul corridoio monumentale della Galleria Vaticana delle Carte Geografiche (il riferimento alle mappe non è casuale), con lo spettacolo del cupolone incastonato nel tratto del laterizio romano. Il saper fare, che costruisce le strade e che crea i capolavori dell’arte, parte dalle competenze, dalla buona progettazione e dalla capacità di emozionare.

«Se i dati sono i mattoni, gli analytics sono il modo di metterli insieme». Perché i progetti hanno bisogno di talento e competenze. Occorre coinvolgere le persone nel cambiamento, ripensare l’organizzazione e i processi dalle fondamenta» – ha detto Fritz Lehman, Executive Vice President and Chief Customer Officer di SAS.

  1. Il cambiamento è una “rottura”

«Disrupting» è la parola più di moda del 2016. Social, Mobile, Analytics  e Cloud sono i paradigmi della digital transformation che hanno travolto in maniera dirompente «disrupting» il modo di essere e fare impresa. In Italia, il cambiamento troppo spesso più che essere dirompente – nel senso di produrre la frantumazione di contesti, contenuti, regole e abitudini consolidate – è quasi sempre una “rottura” e basta.

Anche l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca – manco a dirlo, in barba ad ogni previsione e che ha preso in contropiede più di qualcuno proprio durante la tre giorni di SAS – forse, sarà “disrupting”. In qualche modo.

  1. La digital transformation crea nuove alleanze ed equilibri di forza sul mercato

La digital transformation crea e distrugge. Così alcune aziende spariscono, altre diventano il peggior nemico di se stesse, altre ancora decidono di diventare fornitori di qualcun altro. E così si creano alleanze nuove, che prima non avresti mai detto. Un sensore IoT non è altro che un interruttore in grado di catturare e trasmettere dati. Che cosa succederebbe se questo “interruttore” avesse più intelligenza a bordo e fosse capace non solo di monitorare, ma di decidere quali dati trasmettere? Così non fa meraviglia che Intel (potenza dei microprocessori e dei dispositivi di memoria) e IBM (campione di cognitive computing con Watson) siano gli sponsor di un evento come questo. Semmai, ci sarebbe da chiedersi se non manchi un altro nome, forse tra i big del networking.

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  1. La tecnologia cambia le abitudini ma non i bisogni

Basta parlare di innovazione come se fosse un mantra. E basta parlare di Millennials come se fossero un esercito monolitico di “geek”, tutti votati a una idea soltanto. Logico e bio-logico sono due categorie differenti. E ogni rivoluzione tecnologica, con le dovute distinzioni, ha avuto i suoi “nativi digitali”.

  1. Collezionare i dati non significa creare valore

Gli analytics non sono solo uno strumento a disposizione del marketing ma uno dei driver della digital transformation. Perché, «non si tratta più di collezionare dati, ma di ottenere valore per trasformare il mondo in un posto migliore» – ha detto Randy Guard, Executive Vice President and Chief Marketing Officer di SAS.

  1. Il futuro degli analytics è open, cloud, unified e powerful

Stiamo passando dal modello classico di Machine Learning a uno più moderno che impara acquisendo le competenze necessarie. Ovunque ci siano dati, là dovrebbero esserci anche strumenti analitici, persino sulla superficie dei sensori IoT. «Per la prima volta nella storia – ha detto Oliver Schabenberger, Executive Vice President e nuovo Chief Technology Officer di SAS – le macchine non solo dialogano tra loro ma sono in grade di interagire con noi, cambiando la nostra vita attraverso un linguaggio sempre più naturale».

  1. Niente è come sembra

Si parla tanto di creatività e innovazione ma ci vuole tempo per innovare, per essere creativi e anche per raccontare una storia come questa, in grado di riunire la “tribù” intorno al “fuoco”. Del resto, che cosa sono gli analytics se non il modo per scoprire la relazione tra i dati e i fatti? E ogni dato può raccontate una storia con finale diverso.

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  1. Il business del futuro sarà sempre più “open”

Big Data Analytics, cloud, social network, IoT, mobility, cognitive computing e intelligenza artificiale scandiranno il ritmo del business del futuro e anche qui il mondo open source presenta vantaggi significativi in termini di approccio distribuito e non centralizzato per coordinare in modo più agile l’integrazione di servizi. Con Viya, SAS ha rinnovato la sua piattaforma con un’architettura nata da zero per il cloud completamente aperta in senso open source, ma anche accessibile agli utenti in termini di user experience. L’open source è sempre più al centro di questa rivoluzione come ha messo in evidenza Jim Zemlin, Executive Director of The Linux Foundation.

  1. L’IT e il Business sono la faccia della stessa medaglia

Collaborazione significa arricchimento culturale che porta anche alla crescita professionale dei talenti e alla creazione di network tra aziende e persone. Grazie all’open source e al cloud pubblico è poi possibile sviluppare applicazioni o creare servizi per ambienti ibridi e per architetture a container. «Parlare lo stesso linguaggio significa essere liberi di innovare e l’approccio “open” e la collaborazione tra IT e Business stanno rivoluzionando il processo di sviluppo delle imprese e il rapporto tra sviluppatori, fornitori e utenti» – ha detto Carl Farrell, Executive Vice President & Chief Revenue Officer di SAS.

  1. L’effetto farfalla e la legge di Murphy

Niente è facile come sembra e ogni soluzione genera nuovi problemi. Gli analytics mostreranno quello che vogliono veramente i clienti. Ma occorre fare attenzione perché saranno i loro desideri a guidare il mercato.

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I piccoli segnali possono generare ondate imprevedibili. Il battito delle ali di una farfalla può provocare un uragano dall’altra parte del mondo, come ha raccontato Jon Briggs, broadcast journalist per BBC e ITN, noto per essere anche la voce di SIRI. Ma si tratta dell’effetto chiamato Butterfly Effect oppure della legge di Murphy? Del resto, anche il caos è uno schema e se qualcosa può andare storto, lo farà quasi sempre nel momento peggiore possibile.

  1. Un approccio non statistico può essere «very dangerous»

Un approccio non statistico ai dati può essere molto pericoloso, perché lascia i decisori in balia dell’emotività, come ha spiegato in una delle oltre cinquanta sessioni parallele, Furio Camillo del dipartimento di Scienze Statistiche dell’Università di Bologna.

Nel mondo (a parte) del mercato finanziario, l’automazione è molto spinta. Si gioca con un mix di regole di matematica finanziaria, teoria dei giochi e teoria del caos. Non a caso, scelte razionali che dovrebbero essere orientate solo alla massimizzazione del profitto, qualche volta lasciano spazio a comportamenti irrazionali dettati dall’incertezza. Dal 2006 a oggi, ci sono stati almeno sei flash crash che hanno rischiato di far saltare i mercati finanziari di mezzo mondo, tutti riconducibili ad algoritmi fuori controllo.

  1. Non si può prevedere tutto

Di fatto, un algoritmo è sempre soggetto alle manipolazioni, in quanto prodotto della programmazione umana e dove solo ciò che è razionale può essere descritto e previsto. Ogni modello statistico porta a una probabilità di scenari alternativi non a una certezza della decisione, che è sempre umana, ed è oggetto della programmazione che contiene le regole per decidere. Nel film The Martian diretto da Ridley Scott, quando tutto sembra perduto, è un giovane data scientist della NASA a salvare la missione, calcolando la manovra di fionda gravitazionale. Nel caso (reale) della sonda Schiapparelli, lo schianto su Marte, invece, è stato causato da misure sbagliate che il computer di bordo ha eseguito in modo automatico, «perché è difficile prevedere tutti gli scenari» – ricorda Furio Camillo – anche quelli che non si conoscono o che sono sbagliati e il controllo umano (che riesce a creare vincoli e a correggere gli errori in tempo reale a differenza di una macchina) a quella distanza non era possibile.

  1. L’importanza della leadership

Senza una leadership che si assume la responsabilità della decisione resta solo l’automatismo che contiene sempre un difetto: quello della programmazione. E in situazioni di emergenza, la colpa è sempre del “sistema” che non ha funzionato. Il software non è una bacchetta magica e c’è sempre bisogno di un driver. La digital transformation chiede in cambio trasparenza e responsabilità. Ed ecco perché intorno ai progetti di advanced analytics applicati ai Big Data è necessario costruire un sistema di leadership e una cultura dei dati multidisciplinare in grado di sostenere la trasformazione digitale di una azienda. Inserire un data scientist in un contesto non strutturato, dove non esiste cultura dei dati, porta a due soli risultati disastrosi: l’esaurimento nervoso del “junior account di turno” o il fallimento del progetto. Con l’unica conseguenza che gli executives dell’azienda, a loro volta, torneranno a decidere affidandosi alla pancia o al proverbiale intuito. Con tutto ciò che ne consegue per il futuro dell’azienda.

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  1. Siamo quello che sentiamo

Per David Shing, la semplicità è l’antidoto alla complessità. «Dobbiamo passare dall’Internet of Things all’Internet of Emotions». Dietro milioni di dispositivi connessi ci sono le persone con le loro emozioni. E di questo bisogna prendere atto. I modelli di business vanno cambiati «perché ciò che fa veramente schifo» è l’approccio al cliente di molte aziende. Le imprese di successo saranno quelle in grado di riflettere il cambiamento culturale anche nelle loro azioni di comunicazione e di marketing.

  1. I dati producono conoscenza

Il valore informativo dell’IoT è ancora in buona parte inesplorato ed è profondamente collegato al contesto.

I dati, incessantemente prodotti dalle attività umane, fanno da ingredienti e da materia prima per “produrre” conoscenza grazie alla tecnologia cognitiva. Secondo i dati di IDC, nel 2016 saranno consegnati 1,45 miliardi di smartphone nel mondo. Il numero di oggetti connessi – smartphone compresi (che è il device IoT più diffuso in Italia) – è destinato a crescere ancora: Gartner prevede che saranno 28 miliardi nel 2020, quattro volte la popolazione mondiale prevista per quella data, con un valore di mercato che potrebbe superare due volte il PIL prodotto negli stati Uniti nel 2014.

«Le previsioni sull’IoT sono state riviste più volte e continueranno a esserlo nel futuro» – ha detto Tamara Dull, Director of Emerging Technologies di SAS. «Ma il trend è in crescita costante e con ogni probabilità il mercato decollerà dal prossimo anno».

  1. La bilancia costi e benefici. C’è sempre un prezzo da pagare

Nel 1999, Kevin Ashton ha coniato l’espressione “Internet of Things”. Che cosa abbiamo imparato da allora? «Che l’efficienza dei processi è il primo obiettivo da raggiungere e che lo sviluppo di un progetto IoT non è per i deboli di cuore perché bisogna avere sempre un piano B a portata di mano per affrontare gli imprevisti. Non dobbiamo dimenticare che tra sicurezza e libertà, tra costo e beneficio, esiste sempre una relazione e un prezzo da pagare. Grazie a Edward Snowden – ha detto Tamara Dull – finalmente siamo più consapevoli della nostra privacy».

  1. Perché i progetti IoT falliscono?

Sono tre le ragioni principali del fallimento dei progetti IoT, spiega Tamara Dull. «Primo, perché non fanno parte della strategia aziendale. Secondo, perché pongono grandi problemi di sicurezza IT. E terzo, perché non sono sviluppati insieme al Business. Per avere successo, invece è necessario impostare il processo di business e poi pensare alla soluzione da adottare».

  1. L’industria automobilistica rivoluzionerà la mobilità e l’energia

L’industria automobilistica, dopo anni di crisi, è stata una delle prime a sperimentare le potenzialità della rivoluzione IoT. Il sogno dell’auto elettrica connessa che si guida da sola è destinato a rivoluzionare non solo la mobilità ma anche l’industria delle assicurazioni e dei combustibili. Molti stanno provando a guidare questa rivoluzione, ma non tutti sono in grado di farlo. «Volvo è un caso molto interessante» – ha detto Tamara Dull. «Forse non sarò obiettiva, dato che sono la felice proprietaria di un’automobile della casa svedese. Tuttavia, tra i produttori di auto, Volvo assicura una experience di livello superiore perché riesce ad avere una comprensione delle prestazioni meccaniche dei suoi veicoli in condizioni di guida reali, usando un approccio integrato tra IoT e advanced analytics».