L’informatica che Data Manager ha cominciato a raccontare 40 anni fa doveva adeguarsi a processi aziendali, spesso pensati per un pubblico che ignorava l’esistenza del computer. Oggi, i processi del business digitale non possono prescindere da una tecnologia pervasiva e simmetrica
Quarant’anni, quasi due generazioni umane. Il tempo necessario, per Data Manager e i suoi lettori, per attraversare modi molto diversi di “fare” informatica nell’impresa. La rivista creata nel 1976 come supplemento di una pionieristica testata di economia e management, è venuta alla luce agli albori dell’era della microinformatica, seguendo da vicino tutta l’evoluzione dell’informatica distribuita o, come si diceva allora, client/server. Vent’anni dopo arrivò il momento di spiegare le opportunità offerte da Internet, il commercio elettronico, la prima crisi della Net economy, l’esplosione tecnologica della virtualizzazione, di una informatica non solo distribuita ma davvero pervasiva.
L’evento che Data Manager ha allestito per raccontare questi quarant’anni di innovazione insieme ai lettori, gli inserzionisti e ai responsabili delle aziende e delle loro infrastrutture tecnologiche, ha visto alternarsi diversi spazi di discussione delle principali tappe di questo straordinario percorso evolutivo tecnologico. Dopo una prima parte dedicata alla rivisitazione del passato più o meno recente, ecco il resoconto della tavola rotonda focalizzata sulla contemporaneità, sull’informatica che aziende, pubbliche amministrazioni e consumatori stanno vivendo in questa fase di grande trasformazione, di acquisizione e consolidamento dei principi di quella che i ricercatori di IDC, preziosi partner di #SiamoForty, hanno chiamato Terza Piattaforma. Un termine che indica chiaramente il distacco rispetto all’era dei mainframe e dell’informatica distribuita e della prima fase di Internet. Il passaggio a uno scenario complesso dominato da quattro fenomeni indissolubilmente intrecciati: cloud computing, mobilità, Big Data e interattività social.
È un’epoca, questa, in cui la trasformazione digitale del business è definitivamente entrata nel vivo. Gli invitati a questo tavolo sono stati chiamati a discutere del livello di avanzamento nell’adozione della Terza Piattaforma. Sta funzionando quel modello dell’ICT a doppia velocità proposto per consentire di immettere una sostanziosa “dose” di innovazione nelle infrastrutture e nei processi, assicurando al contempo una sufficiente continuità sulla parte infrastrutturale e di servizio più tradizionale? È possibile insomma scatenare cambiamenti profondi, “disruptive”, preservando nel day by day il funzionamento delle infrastrutture e i processi che vanno comunque adeguati a un business in piena evoluzione?
LE PAROLE D’ORDINE DELLA NET ECONOMY
I nostri panelist hanno espresso il loro parere anche sul ruolo del CIO e dei responsabili delle infrastrutture e dei servizi IT all’interno delle rispettive organizzazioni. Quali nuove figure tra responsabili dell’innovazione, chief data officer, manager della sicurezza, direttori del marketing digitale, stanno affiancando i ruoli tradizionali? Come si sta passando da una informatica come “centro di costo” a una IT vista finalmente come un autentico motore di crescita e cambiamento di processo? La digital transformation riguarda anche il governo della stessa tecnologia e le sue relazioni con il management e le altre funzioni aziendali?
Il marketing dell’IT ha sempre amato gli acronimi e le formule sintetiche, non sempre riuscendo a evitare confusioni e qualche perplessità. Eppure, in un mercato così diversificato e iperspecializzato, una terminologia efficace aiuta a far chiarezza. E in questo senso il vocabolario della Terza Piattaforma e del digital business è davvero ricco. Big Data, digital e social marketing, e-payment, unified communication and collaboration, sono solo alcune delle parole d’ordine della Net economy vissuta sia dalle imprese di servizio, dove la connessione tra tecnologia e business è più diretta; sia in comparti come il manifatturiero, dove la sfida consiste nel costruire ponti sempre più stabili tra prodotti fisici e prodotti “digitali”. Tra i grandi fenomeni identificati come fattori di cambiamento, dalla business analytics di nuova generazione al cognitive computing, dal social business alla mobilità, dai nuovi sistemi di pagamento a blockchain, dalla connettività pervasiva della IoT alla customer experience, si è cercato di identificare le direzioni prioritarie nelle aziende dei nostri interlocutori.
Infine, uno spazio anche per la trasformazione della burocrazia. Le tecnologie per la smart city e l’e-government mettono in una luce diversa – e molto più concreta – la necessità di intervenire radicalmente sullo svecchiamento di procedure e servizi concepiti quando l’automazione era del tutto impensabile. Eppure, come è emerso anche nella prima tavola rotonda del nostro evento, continua a mancare, dalla politica centrale, la capacità di definire un percorso e di sorvegliarne l’esecuzione: in questo ambito l’innovazione continua a essere caratterizzata da progetti anche ambiziosi, che rimangono però isolati e non si traducono in una vera e propria catena di eventi. Quale sono secondo i nostri ospiti i contributi che amministrazioni locali e centrali, aziende private, associazioni di categoria e università possono dare alla definizione di una strategia efficace?
UN CAMBIAMENTO CHE RIGUARDA TUTTI
Il primo a prendere la parola è Fabio Rizzotto, senior research & consulting director di IDC Italia, che esordisce riprendendo, dalla discussione che ha aperto la mattinata, concetti come il ritardo della digitalizzazione, l’importanza del capitale umano, l’evoluzione socio-demografica del Paese e dei suoi nuovi bisogni, insieme alla necessità di leadership, progettualità, di un nuovo rapporto tra pubblico e privato, la capacità di sfruttare le nostre eccellenze e di adeguare un quadro normativo ancora carente. «Tutti temi – avverte Rizzotto – che saranno parte integrante anche di questa tavola rotonda sul tema della trasformazione digitale, argomento che IDC ha tenuto sotto la lente negli ultimi diciotto, ventiquattro mesi». Non ci sono dubbi, per Rizzotto, che il cambiamento in direzione di una visione digitale dell’impresa è in pieno svolgimento, con una percentuale di oltre l’80% di aziende che nelle varie indagini IDC indica estese strategie di trasformazione, con il pieno coinvolgimento di CEO e altre figure apicali. Il problema, si chiede l’analista, è capire come stia avvenendo. Una prima riflessione riguarda la scala di un fenomeno che da urgente, dice Rizzotto, «sta assumendo precise grandezze espresse sotto il punto di vista di mercati che cambiano, scelte tecnologiche fatte, variabili legate anche a una elasticità che diventa sempre più percepibile e trascina all’interno di una nuova dimensione tutta una serie di figure-guida».
Quando si parla di figure-guida, annota Rizzotto, non si parla più di funzioni specifiche. «È sicuramente un lavoro di squadra, anche se molte aziende stanno nominando, accanto a quelle tradizionali del CIO, nuove figure e nuovi ruoli». Insieme, queste nuove figure e il management cui devono fare riferimento, contribuiscono a definire l’indispensabile vision di un’economia in cui anche le aziende legate a prodotti tangibili, materiali, hanno bisogno di proiettarsi in un mercato che deve saper coniugare questa dimensione fisica a una dimensione puramente immateriale. «Non è più una novità parlare di dati come asset rilevante, non più solo come leva per conoscere meglio l’azienda, ma come valore a sé stante: informazioni e architetture sottostanti che in realtà aiutano a traguardare nuovi modelli di business, per i quali è fondamentale lavorare in una ottica di totale interconnessione». Nella sua efficace slide riassuntiva, Rizzotto mostra il ritratto ideale di una impresa destinata a prosperare nella digital economy. È in sostanza un’azienda che sa definire una propria vision, sa affrontare come una cosa sola le esperienze fisiche e digitali del suo cliente, sa estrarre valore dalle informazioni in suo possesso, sfruttare l’interconnessione dei suoi sistemi con quelli di fornitori, partner e clienti per creare nuovi stream di fatturato e, last but not least, sfruttare le tecnologie esistenti per vincere la battaglia dei talenti, cavalcando il cambiamento anche sul fronte delle risorse umane. Le aziende che arrivano a interpretare al meglio questa strategia vengono definite “digital disruptor”, l’ultima di cinque categorie utilizzate nei censimenti di IDC. Un’altra slide di Rizzotto propone un confronto tra Stati Uniti ed Europa, da cui risulta ancora un leggero distacco del nostro continente. Sono più numerose in Europa le aziende ancora ferme alle prime due tappe del cammino della digitalizzazione, i “resistenti” e gli “esploratori”. Anche se con margini non incolmabili, gli Stati Uniti contano più imprese tra i “digital player”, i “transformer” e, appunto, i “disrupter”, che in Europa sono circa un’azienda su venti. Dentro le percentuali indicate, osserva Rizzotto «non ci sono dunque solo i disruptor. Anche in Italia ci sono tantissime nuove realtà, quelle nate dal 2000 in poi, che movimentano parte dell’economia digitale, ma anche i brand storici, che risalgono a decenni e anche addirittura a qualche secolo». Tutte queste aziende sono già immerse nel cambiamento. Il fattore importante è che il percorso indicato travalica i confini tra settori di industria e che ogni azienda, in ogni settore, può fare storia a sé. «La disruption – afferma Rizzotto – arriva da modelli completamente nuovi e diversi».
EVANGELISTI E DISRUPTOR
Qual è il ruolo assunto dall’Information Technology in queste storie di conquista di nuovi modelli? Anche questo coinvolgimento è piuttosto diversificato. Secondo IDC si va da casi, maggioritari, in cui l’informatica aziendale è proattiva e ha già organizzato al proprio interno delle specifiche squadre di innovatori (35% delle imprese europee), o è comunque coinvolta in modo reattivo nella definizione delle strategie di business (32% delle aziende). In una minoranza di casi (meno del 20%) la tecnologia e i suoi responsabili sono molto coinvolti anche nel disegno strategico dei nuovi modelli. «L’IT – riconosce Rizzotto – sta facendo il suo mestiere, se lo misuriamo dal punto di vista della funzione, dell’organizzazione, dei ruoli».
D’altra parte, aggiunge l’analista IDC, non si può chiedere all’IT di guidare strettamente il business, ci sono naturalmente altre figure, ma l’informatica oggi svolge una funzione sempre più significativa. Ma il CIO può fare da solo, può vivere in prima persona un cambiamento così epocale? «Probabilmente no» – risponde Rizzotto. «Servono, e il mercato lo sta dimostrando, altre figure emergenti. Occorre in molti casi un responsabile della digitalizzazione, che vada in affiancamento al CIO inteso come ruolo comunque centrale e ben definito agendo, a seconda dei casi, come “evangelista” e promotore di approcci tecnologici innovativi, di una nuova cultura aziendale; come vero e proprio disruptor interno, con l’esplicito mandato – e spesso il budget – dell’introduzione di processi del tutto inediti; o infine, nelle fasi più mature della trasformazione, come un “general manager” dell’innovazione».
Una volta delineata una precisa vision e individuate le figure esecutive appropriate, che cosa avviene in realtà sul piano delle tecnologie, cioè delle architetture e dei sistemi? «La grande sfida è riuscire a coniugare le nuove architetture digitali in un’ottica di travaso, con un percorso di innovazione che parte dalla tradizione, con tutta la storia, la stratificazione tecnologica che caratterizza l’IT delle aziende». Secondo IDC, insomma, il grande tema della trasformazione digitale si misura su due grandi capacità: innovare, cioè fare cose completamente nuove, basate su modelli e logiche diverse rispetto al passato, affrontando però tutto questo in una logica di integrazione, con una serie di processi anche IT che non inducano a rinunciare alla gestione dell’esistente. Un esistente che in molte situazioni mantiene, evidentemente, una importanza fondamentale.
Fabio Rizzotto chiude la sua presentazione con un rimando alla qualità della trasformazione, alle molte circostanze in cui un progetto parte con la giusta motivazione ma subisce battute d’arresto, o semplicemente non riesce a centrare gli originari obiettivi di tempo e scala di implementazione. Mentre la concorrenza incombe e gli avversari possono superarti in ogni momento. C’è quindi un duplice tema di accelerazione iniziale e di velocità da sostenere nel tempo che non è mai facile da mettere in pratica. «In questo, vendor e partner tecnologici possono avere un ruolo importante, a vari livelli. I partner possono dare una grossa mano, anche nell’immaginare nuovi scenari» – conclude Rizzotto, gettando sul tavolo di discussione una questione finora rimasta un po’ sottotraccia. Il cambiamento di cui stiamo parlando può essere portato avanti in piena sicurezza? «In un mondo che sta diventando sempre più complesso e aperto all’innovazione, la macchina del cybercrime è sempre pronta a saltarci addosso. Un’altra grande sfida è quindi legata alla consapevolezza dei tanti fattori di rischio, che dobbiamo portare sui tavoli strategici e affrontare nella loro giusta dimensione».
TRASFORMARSI PER COMPETERE
La discussione del panel si apre con l’intervento di Massimo Milanta, group chief information officer & chief security officer di UniCredit. Sul settore bancario sono puntati gli occhi di tutti gli osservatori, non solo per la strategica importanza della tecnologia in ogni suo sottosegmento, ma anche per gli enormi cambiamenti indotti dall’evoluzione del quadro normativo, che ha rimosso i naturali recinti protettivi del business bancario (a partire dalla titolarità nella gestione del denaro come strumento di pagamento), accentuando gli effetti dell’enorme pressione competitiva esercitata da nuovi entranti e dalle giovani imprese del cosiddetto “fintech”. Quando IDC parla per esempio della necessità di innovare in una logica di integrazione con le infrastrutture esistenti, forse il primo esempio che viene in mente è quello della banca. L’industria bancaria, sottolinea lo stesso Milanta, è proprio la tipologia di azienda che tratta asset immateriali ed è una candidata naturale alla trasformazione digitale. «Come tutti, siamo investiti da questo vento di trasformazione, ma è un cambiamento che viene da lontano» – sottolinea Milanta, secondo il quale, più che di pressione competitiva in senso classico, è il modello stesso della banca che va ridisegnato. «In Italia e all’estero, abbiamo eccellenti competitor, ma la cosa è più profonda: dobbiamo trasformarci per essere in grado di competere nel modo completamente nuovo di fare banca». UniCredit non può però trasformarsi in una banca digitale dall’oggi al domani. «Siamo tenuti a seguire la digitalizzazione dei nostri mercati, che non è affatto immediata». UniCredit, riconosce Milanta, gestisce ormai grandi volumi di transazioni puramente digitali, ma molte operazioni commerciali avvengono ancora sulla rete fisica e i partner e i clienti mantengono comportamenti “tradizionali”, sebbene in forte trasformazione. E questo implica il dilemma della doppia gestione dell’ordinario e del nuovo, e il dovere di dosare i due aspetti. «UniCredit lo ha fatto dividendo chiaramente le responsabilità. Abbiamo investito molto sui giovani, qualcosa che – non è banale dirlo – fa davvero molta differenza. Abbiamo cercato di costruire una parte dell’azienda capace di operare meglio sotto i vincoli imposti a un settore così regolamentato. E una struttura di Research & Development più libera, dove i giovani talenti possono cimentarsi sulle nuove tecnologie godendo di un rapporto privilegiato verso il business, partendo da piccoli progetti da sviluppare successivamente». Con risultati spesso ben superiori alle aspettative di partenza. UniCredit, dice ancora Milanta, ha cercato quindi di mettere ordine nelle azioni da implementare, studiando a fondo i fenomeni dell’innovazione e della trasformazione digitale nel proprio settore. «Abbiamo operato principalmente su tre assi». A livello di canali e touchpoint, si osservano secondo Milanta dinamiche trasformative molto potenti. Le banche sono partite da siti web, che offrivano sostanzialmente uno strumento per il trading online ma che oggi stanno sempre più evolvendo verso il B2B, con il preciso obiettivo di aprirsi verso ecosistemi partecipativi, in cui la banca non è la sola protagonista, e verso la piccola e media impresa, con la necessità di aprire i propri sistemi informativi a catene decisamente più complesse rispetto al passato.
PROCESSO AI PROCESSI DEL PASSATO
Il secondo asse, quello del dato, è importante perché se nella banca multicanale la relazione allo sportello perde la sua centralità, viene a mancare anche un importante generatore di conoscenza diretta del cliente. Un motore che deve essere sostituito dalla business intelligence. Alla diversificazione e digitalizzazione dei touchpoint, deve infine corrispondere una graduale digitalizzazione dei processi, perché – come afferma Milanta – «alla multicanalità non si può far fronte con i livelli di servizio degli anni Novanta. La trasformazione impatta il nuovo, tutto quello che è più visibile all’esterno, ma anche tutto quello che avviene internamente, la macchina che deve erogare i servizi». La banca, anzi l’azienda digitale, non può più pensare di applicare processi concepiti per una lavorazione manuale, o tutt’al più accelerata e resa più efficiente dall’automazione. Inutile, conclude Milanta, implementare processi apparentemente digitali con tanti omini che continuano a lavorare nel back-office. «Ma questa è la parte più difficile, perché riguarda il consolidato della complessità di una organizzazione come la nostra».
Dopo un riassunto così efficace delle direzioni strategiche su cui devono essere orientate le strategie informatiche di una grande banca, sentiamo il parere di Paolo Crovetti, direttore ICT di Brembo, un leader del settore automotive, un grande fornitore di freni, un prodotto industriale, quanto mai materiale e tangibile, ma che sta acquisendo dosi massicce di intelligenza, che impatta anche sui processi produttivi e sui sistemi informativi. Come si fa a governare il cambiamento di un’infrastruttura in questo contesto? «Rifiutando ogni approccio ideologico e con tanto pragmatismo» – risponde Crovetti. Brembo è una realtà manifatturiera, le priorità non sono quelle di una realtà B2C, ma ha di fronte due spinte molto diverse, una la digitalizzazione della fabbrica, il cosiddetto Industry 4.0 con tutto il suo impatto sulle modalità di produzione e sulla forza lavoro in relazione con le macchine. Dall’altra parte c’è il problema di capire come supportare chi sta affrontando il passaggio da sistemi tipicamente idraulici, a sistemi meccatronici, pieni di sensori e di software. Le due velocità di Brembo, insomma, non riguardano solo l’informatica aziendale, ma i rapporti con un mercato che sta ancora utilizzando prodotti in forte evoluzione.
L’IT ENTRA IN FABBRICA
A proposito del suo lavoro di responsabile infrastrutturale, Crovetti dice di non amare il termine di “guardiano” dell’infrastruttura, che gli ricorda troppo il tenente Drogo del Deserto dei Tartari buzzatiano, il guardiano che a furia di sorvegliare perde di vista una battaglia che sta avvenendo altrove. «Al contrario di realtà forse più complesse della nostra –
dice Crovetti – credo però di non riuscire a definire posizioni altrettanto chiare. Insieme ai colleghi lavoriamo con la logica del cavaliere della tavola rotonda, il nostro “Sacro Graal” è la digitalizzazione, ma come nel mercato nessuno possiede ancora la formula giusta, siamo continuamente alla ricerca della giusta soluzione per evolverci, per trasformarci». Nell’IT non vale più la vecchia relazione tra cliente interno e fornitore di servizi. Al suo posto, molta interdisciplinarietà che porta a una maggiore collaborazione tra figure diverse. «Un collega, il direttore delle operations, con cui abbiamo un intenso lavoro sulla fabbrica, mi ha detto che se quel progetto ha avuto successo è perché l’IT ha capito la cultura della fabbrica e questa è entrata nel DNA dell’IT. Il valore oggi viene da questa collaborazione».
Aziende come Brembo tendono sempre più a lavorare in una ottica di co-design con i propri clienti e questo deve valere anche per i “clienti” dei servizi IT. L’aspetto affascinante di questa fase – conclude Crovetti – è che «siamo noi a dover creare le giuste correlazioni, per farle diventare conoscenza e trasformare quest’ultima in know-how aziendale». Il mestiere del CIO si sviluppa all’interno di una squadra sempre più allargata, come del resto quello tra le aziende che necessitano di soluzioni tecnologiche e gli specialisti esterni che le aiutano a progettarle. L’esempio della tavola dei cavalieri proposto da Crovetti piace a Fabio Ardossi, associate partner di Data Reply, che giudica le squadre interdisciplinari che si formano all’interno delle aziende più innovatrici come un ideale punto di ingresso per una realtà consulenziale come Data Reply emersa proprio da un insieme armonico e flessibile di expertise. Quando si parla di dati e informazioni come fattore di innovazione, sostiene Ardossi, sarebbe limitativo fermarsi all’idea di dato che colleghiamo normalmente all’informatica e ai suoi strumenti. «L’obiettivo di Data Reply è guidare le aziende attraverso un processo di cambiamento che passa sicuramente per le tecnologie, ma che passa anche per come il dato viene visto e utilizzato».
PER CAMBIARE, L’ETÀ NON CONTA
Nell’incontro di apertura della mattinata, prosegue Ardossi, qualcuno a proposito delle frammentazione, che caratterizza le informazioni della pubblica amministrazione, ha puntato il dito sul rischio di creare “orticelli” chiusi, dove i dati vengono gelosamente nascosti. Anche nelle aziende è uno degli ostacoli più grandi, sottolinea l’associate partner di Data Reply, e l’area in cui le aziende hanno bisogno di aiuto. Come viene recepito il messaggio verso una maggiore capacità di condivisione? «Le reazioni sono molto diverse» – spiega Ardossi. «Noi abbiamo la fortuna di operare su un mercato internazionale, sappiamo che l’azienda italiana non è necessariamente in ritardo rispetto ad altre. Inoltre, molto dipende dalla natura del mercato, ci sono settori più inclini al cambiamento. Quello che conta è che tutte le aziende sono in corsa, nessuna è ferma in posizioni attendiste. Qualcuno si è mosso per primo». C’è un messaggio importante che riguarda il capitale umano, un altro dei fondamentali ingredienti della ricetta della trasformazione. Spesso si dice che l’anzianità media dei propri dipendenti può essere un fattore di resistenza, ma Ardossi tranquillizza i “senior”. «No, non è vero, nelle realtà capaci di gestire la trasformazione, quando le persone sono abituate giorno per giorno, anno per anno, al cambiamento, non conta l’età ma la cultura dell’azienda». Ma visto che le resistenze ci sono, dove si deve agire? «Non ci sono ricette generiche, bisogna ogni volta calarsi nella realtà quotidiana. È il contesto di questa quotidianità a essere complesso. Da una parte una forte spinta al digitale, dall’altra una spinta opposta, che non vuole, o non può, abbandonare la fisicità. La resistenza nasce anche da questa tensione».
È possibile pensare a una piena digitalizzazione del mercato senza una relazione virtuosa tra il cittadino digitale e una pubblica amministrazione che sembra così immune al cambiamento? E soprattutto: la PA è davvero così immune alla trasformazione o i suoi numerosi casi di eccellenza devono indurre a un ragionevole ottimismo? La domanda è rivolta a Giacomo Angeloni, assessore all’Innovazione e Semplificazione del Comune di Bergamo. Un ospite ancora più gradito, considerata la contemporaneità tra l’evento per il quarantesimo di Data Manager e la manifestazione Forum PA. Un primo punto importante, sottolinea Angeloni, è che se l’innovazione delle imprese può permettersi di celebrare almeno quarant’anni di storie di successo, i primi tentativi di trasformare seriamente la burocrazia risalgono più o meno a vent’anni fa. Una partenza con l’handicap che però non impedisce all’assessore bergamasco di citare almeno tre esempi di trasformazioni recenti, a suo parere, molto efficaci. «Sono tre progetti degli ultimi due anni, che possono cambiare il metodo e la cifra della PA nei confronti di cittadini e imprese» – afferma Angeloni riferendosi alla piattaforma SPID per l’identità digitale; al nodo unico per i pagamenti, PagoPA; e infine al progetto di Anagrafe Estesa che dovrebbe decollare dopo l’estate.
LA PA SI DÀ UNA MOSSA
Da sola, sottolinea Angeloni, l’identità digitale rappresenta una straordinaria occasione per federare, dal punto di vista del cittadino, l’accesso a una quantità di servizi che oggi richiedono una autenticazione separata. «Si pensi che solo per il Comune di Bergamo si contano dodici tipologie di accessi online». Anche per l’Anagrafe estesa, Angeloni ha un esempio riferito alla realtà da lui coordinata. «Abbiamo una sessantina di gestionali dei vari servizi e ciascuno di essi ha una propria anagrafica con inevitabili ridondanze, dati che non collimano. L’idea è di centralizzare tutte queste anagrafiche, di trasformarle in un servizio a cui ogni software attinge per avere anche solo i dati dei cittadini». L’idea che Inps, Province, Regioni abbiano lo stesso punto di riferimento per identificare una persona, non è per niente banale. Angeloni cita la grande abbondanza di dirigenti nei servizi informatici dei Comuni, ciascuno responsabile di software che resta isolato e non può fare sistema. «La pubblica amministrazione si è risvegliata e comincia a ottenere risultati. Bisogna essere capaci di cambiare, essere allenati al cambiamento. Forse, per questo a Bergamo è stato scelto un educatore professionale come me». E gli “allievi”, in Comune reagiscono con grande entusiasmo. Bergamo sta portando a termine un processo di digitalizzazione della modulistica che comprendeva 6.750 formulari diversi. «Un lavoro di traduzione importante per una burocrazia che deve passare dalla carta al software. In un anno, siamo passati da oltre seimila moduli a 28, tutti compilabili in html. Abbiamo digitalizzato i rapporti con il settore dell’edilizia, nessuno deve fare più code».
Il racconto di Angeloni si sofferma anche sull’annosa questione del digital divide infrastrutturale che penalizza la geografia italiana più periferica, così spesso tagliata fuori dalle connessioni a larga banda. A Bergamo è stata condotta una battaglia su due fronti, quello delle scuole (55 istituti di pertinenza comunali coperti da una combinazione di fibra e Wi-Fi) e quello del Wi-Fi pubblico, ampliato con l’installazione di 72 access point che hanno portato alla copertura del 3,4% del territorio comunale, in particolare tutto il centro città e la celebre Bergamo Alta. «Dall’inaugurazione nel maggio 2015, abbiamo avuto 94mila cittadini registrati» – osserva Angeloni, concludendo su un punto fondamentale: la pubblica amministrazione deve collaborare il più possibile con il privato e i suoi capitali, “orientandone” gli investimenti in project financing. Nel caso della copertura in fibra di Bergamo, rivela Angeloni, Telecom, Fastweb, Vodafone e A2A hanno investito complessivamente 22 milioni di euro.
TUTTI PRODUCONO DATI
Quello di Orange non è tra i nomi citati da Angeloni, ma alla tavola di Data Manager siede Gianluca Salvaneschi, head of Strategic Business Development & IoT Southern & Central Europe di Orange Business Services, pronto a illustrare il punto di vista di un system integrator globale delle telecomunicazioni sull’attuale evoluzione delle autostrade per il business digitale. Orange, spiega Salvaneschi, è coinvolta oggi in grandi progetti commissionati dalle imprese che hanno una presenza globale e dalle autorità che promuovono le trasformazioni dell’e-government e della smart city. «Siamo a nostra volta un’impresa sempre più digitale, che dà la possibilità di lavorare con qualsiasi dispositivo, in qualsiasi punto». Infrastrutture IT e grandi reti TLC, sottolinea Salvaneschi, subiscono una analoga spinta verso la piena separazione tra lo strato fisico dell’hardware e lo strato logico delle funzionalità. «Secondo le nostre previsioni, una metà del fatturato generato da Orange si sposterà verso la cosiddetta Software Defined Network. Ci stiamo preparando a un futuro in cui società come UniCredit e Brembo vedranno nuove figure preposte alla gestione delle infrastrutture». È già diventato possibile uno scenario in cui il cliente di un operatore come Orange potrà definire via web la propria rete di trasporto per dati e comunicazioni. E i dati, avverte Salvaneschi, ormai riguardano tutti. «I responsabili IT di un grande automaker mi parlavano tempo fa delle resistenze del management nei confronti dei progetti Big Data. «Noi produciamo auto, non dati» – ripetevano. «Peccato – commenta Salvaneschi – che un loro concorrente americano, General Motors, sta già montando a bordo delle sue vetture dispositivi in grado di raccogliere dati da rivendere sul futuro mercato del Big Data, essendo convinti che una parte delle marginalità del settore non verranno dal ferro delle auto, ma dalla capacità di queste ultime di agire da sensore mobile per una quantità di informazioni utili a comparti diversi dalle assicurazioni alle previsioni meteo».
INFORMATICA A CHILOMETRO ZERO
È in previsione di “shift” così radicali, che l’informatica aziendale deve agire a supporto di un business che dev’essere in grado di cambiare passo e direzione in tempi praticamente immediati. Questo è per esempio l’obiettivo del progetto di trasformazione portato avanti da Mapei, leader nel settore dei materiali per l’edilizia, che aveva la necessità di accorciare il più possibile il percorso tra i suoi impianti di produzione e acquirenti sparsi in tutto il mondo. «È il problema di tutte le aziende che come Mapei producono cemento, sabbia, additivi chimici» – racconta Lorenzo Anzola, corporate IT director del Gruppo. «Non possiamo produrre in Oriente e trasportare materiali così pesanti: dobbiamo far leva su siti produttivi dislocati dove c’è mercato». Ma questo significa disporre di sistemi informativi che possano governare centralmente, ovunque con la stessa cultura aziendale, una attività che solo in Italia, uno dei 60 paesi in cui è presente Mapei, prevede la quotidiana “uscita” di duecento autotreni per il trasporto dei prodotti da consegnare. I gestionali legacy, prosegue Anzola, erano ormai troppo appesantiti e frammentati. «Abbiamo colto l’opportunità di questa trasformazione come punto di inizio di un cambiamento culturale, rivedendo i nostri processi». Oggi, Mapei ha un unico database centralizzato che copre ogni tipo di prodotto venduto. Tutto il mondo commerciale Mapei può accedere a questo patrimonio governato dalla Ricerca & Sviluppo e dal marketing del quartier generale milanese. In questo viaggio tra le tematiche della Terza Piattaforma tecnologica, uno dei case study più interessanti è quello proposto da Pietro Amorusi, CIO di d’Amico Società di Navigazione. La sua missione, in apparenza, è molto ardua. Ma come è possibile trapiantare l’idea di un business super-reattivo, capace di rispondere praticamente in tempo reale alle condizioni del mercato, in un contesto come quello del trasporto marittimo su scala globale? «Il nostro business – risponde Amorusi – è già in parte real-time. D’Amico non è un trasportatore, il nostro mestiere è noleggiare le navi a chi trasporta via mare le merci. Il business che ci somiglia di più è il noleggio con conducente». Una Uber dei porta-container, insomma? «In un certo senso – sorride Amorusi – ma non siamo così economici e non portiamo container, ma solo carichi sfusi. Una differenza fondamentale perché significa avere un solo cliente per ogni viaggio. Chi trasporta i container fa Big Data solo con la lista di carico».
AL TIMONE DELL’INNOVAZIONE
È un mondo molto tradizionale quello che si affaccia sul mare e lo testimonia Amorusi con un aneddoto: dodici anni fa, la sua prima decisione di CIO fresco di nomina è stata di spegnere definitivamente un antiquato e ormai inutile telex. «Ci troviamo ancora in una dicotomia importante, tra un business a terra fatto di decisioni veloci, comunicazioni assimilabili al mercato finanziario e un mare costituito da norme che risalgono all’epoca dei pirati». E la dicotomia evidenziata sul mercato si ripete anche all’interno della Società di Navigazione, un’azienda che, sottolinea Amorusi, ama coltivare relazioni di lungo termine con i suoi dipendenti e al tempo stesso è attenta a carpire giovani talenti sul mercato del lavoro. Così, persone con trent’anni di esperienza, per le quali fare innovazione è – nelle parole di Amorusi – «una crudeltà», lavorano armoniosamente accanto a risorse umane più motivate nel cambiamento. A proposito del ruolo del CIO, Amorusi non concorda sulla necessità di duplicazione dei ruoli. «Non credo che al CIO si debba per forza affiancare un responsabile dell’innovazione. Se il CIO non è portatore di innovazione, meglio pensionarlo».
«Nella nostra compagnia – conclude Amorusi – l’innovazione colpisce dove meno te l’aspetti. Non negli uffici di terra, tutti fibre ottiche e applicazioni avanzate, ma a bordo delle 70 navi con una ventina di persone a bordo e capacità di calcolo e comunicazione molto limitate. «In mare, l’innovazione finora l’hanno fatta soprattutto i cantieri, sui motori e gli scafi». Ma proprio in questi ufficetti galleggianti, così arretrati dal punto di vista informatico, collegati con la sola posta elettronica, è in atto sotto la pressione dei costi e della maggiore efficienza la sperimentazione più avanzata, quella sul fronte della manutenzione preventiva, che analizza i dati della sensoristica di bordo per ridurre il numero di preziose ore perse per le avarie. Le regole del mare risalgono all’epoca dei pirati, ma sulle navi oggi si fa Big Data».
IN PREVISIONE DEL CYBER-ATTACCO
Siamo arrivati quasi alla fine di una lunga e avvincente discussione ed è giusto dare una parola conclusiva a Emiliano Massa, senior director of regional sales South Europe di Forcepoint, il nuovo brand dello specialista in security israeliano Raytheon/Websense. La sicurezza informatica è il bosone di Higgs che dà peso e concretezza alla forza della Terza Piattaforma, a un digital business che fonda la sua stessa essenza sull’integrità e la protezione dei dati. L’atteggiamento corrente, sostiene Massa, è ancora quello che vede la sicurezza come elemento da inserire “a valle”, una volta che i progetti ispirati ai megatrend di cui si è parlato intorno alla tavola sono partiti. «Quindi si cerca di fare quello che si può, e si aggiungono pezzi di security a posteriori». Questo atteggiamento crea un doppio problema di complessità architetturale e di difficoltà nel gestire la mole di informazioni generate nel corso degli “eventi” di sicurezza. Come tutto il resto, nel business digitale, la sicurezza si gioca sulla capacità di integrare, aggregare. Le aziende continuano a investire in una sicurezza di tipo perimetrale in un momento in cui gli sviluppi della Terza piattaforma, per la forza della mobilità e del cloud, disgregano i tradizionali perimetri della rete. «Ancora poche aziende del mio mercato di riferimento hanno spostato correttamente il fuoco dell’attenzione dalla protezione del perimetro alla protezione del dato» – dice Massa. Il compito di uno specialista come Forcepoint, è aiutare il cliente a prendere la giusta decisione in un ambito in cui si deve imparare a ragionare in termini di risk management. «La sicurezza informatica totale non esiste, implementarla significherebbe bloccare l’azienda». Bisogna piuttosto fissare una “comfort zone” in cui poter operare all’interno, questa volta sì, di un perimetro di rischio ben definito, implementando gli strumenti di una sicurezza informatica sempre più analitica e predittiva, che come per i motori delle navi di D’Amico, possa prevenire i danni più devastanti e i costi elevati delle successive misure di intervento.